Napoli – È andato, in scena, il debutto nazionale di Gran Café Chantant, vaudeville di Tato Russo, lavoro teatrale tratto dall’opera di Eduardo Scarpetta; fra gli interpreti lo stesso Tato Russo; inoltre Clelia Rondinella; sul palcoscenico altri interpreti: Mario Brancaccio, Caterina Scalaprice, Francesco Ruotolo, Renato De Rienzo, Salvatore Esposito, Letizia Netti, Carmen Pommella, Diletta Bonè, Dodo Gagliarde, Antonio Botta, Massimo Sorrentino e con l’Orchestra Gran Cafè Chantant. L’insieme scenico è inquadrato dalle scene di Peppe Zarbo, i costumi di Giusi Giustino le dalle musiche di Zeno Craig e le luci di Roger La Fontaine; il collaboratore alla regia Livio Galassi e la direzione di Gabriella De Carlo. Notevole consenso di pubblico per l’evento. Una rappresentazione teatrale che ha un evidente riferimento storico; la Belle Époque : la vicenda è ambientata ai primi del 900 o per meglio dire, col nome di Belle Époque si indica il periodo storico, culturale e artistico che va dall’ultimo ventennio dell’Ottocento all’inizio del primo conflitto bellico. L’espressione “Belle Époque”, per la cronaca, letteralmente tradotta in “l’epoca bella”, “i bei tempi” nacque in Francia , scaturendo in parte dalla tangibilità storica e in parte da un sentimento di ricordo. In quel periodo le invenzioni e progressi della tecnica e della scienza furono senza confronti con le epoche scorse: I benefici di scoperte nell’ambito scientifico portarono a standard di vita notevoli. L’illuminazione elettrica, la radio, l’automobile, il cinema, e altri comfort, tutte contribuirono ad un miglioramento delle condizioni di vita; suggestioni essenziali che contribuirono al diffondersi di un senso di ottimismo. Il racconto scenico vuole che molti teatri di prosa chiudono perché la moda dell’epoca li rende ormai obsoleti. Qualcuno per seguitare e sopravvivere viene trasformato in ritrovo di numeri di ben altro genere. Due coppie di artisti, interpretati rispettivamente da Tato Russo e Mario Brancaccio, ormai in condizioni economiche ampiamente disagiate sono costretti, dalla necessità, loro detentori dell’antica arte della tragedia, a riadattarsi come personaggi di Café chantant. Qualcuno ha definito lo spettacolo “l’affresco d’un epoca edonistica e culturalmente in grande decadenza”. Tato Russo perfeziona e converte la commedia di Scarpetta in un vaudeville, che è un vortice di trovate, e intorno al classico divertentissimo tipico dell’intreccio scarpettiano ci propone l’analisi abbastanza critica di un periodo storico. Quest’ultimo pur durando lo spazio di un fugace splendore, fu denso di significati culturali; chiudeva un secolo, e l’umanità di allora s’apriva verso l’opera moderna. Un mitico periodo che, pur proponendosi come un’epoca di lucentezze, portava in se anche un periodo di inizio di decadimento. Sinteticamente nel 1900 i teatri di prosa serravano, alquanto definitivamente, le porte per lasciare estensione al Café Chantant. Un nuovo mondo di fare spettacolo e metteva in crisi la forma tradizionale; un concetto che avrà piena verifica a quanto accadrà qualche decennio più tardi con l’ascesa del cinema. Nel contemporaneo avrà ulteriore verifica con l’avvento dei one man show da cabaret. “ Il teatro è finito !” si dice, chiaramente, ad un certo punto dello spettacolo, in scena; molti “teatri storici”, e altri per sopravvivere erano costretti a modificare il repertorio. La vicenda è espressa nel tempo della durata dello spettacolo, ma Tato Russo estende lo spazio transitorio, riferendolo all’intero periodo di quel momento, dalla nascita, allo splendore, alla miseria: una lunga ricorrenza in cui cambia la moda, il gusto, la maniera di intendere e pensare. Intorno ai protagonisti della storia, personaggi principali, si muovono una quantità di personalità, che errano tra tipi di caricature. Da una parte il linguaggio di commedia, dall’altra quello da farsa che è caratteristico di Scarpetta. Tato Russo interpreta Felice Sciosciammocca, una maschera teatrale che fu reinventata da Eduardo Scarpetta e che compare, quale personaggio, come si sa, in molte altre celebri commedie dello stesso autore. Si legge in una nota critica: “ … un ritmo indiavolato che travolge e affascina … un vorticoso gioco di numeri della migliore scuola”. Un ritmo che si materializza metaforicamente in alcune disposizioni sceniche: nel raccontare, nell’epilogo dello spettacolo in particolar modo, la crisi e la fine o l’evolversi del teatro, dell’epoca e in un certo modo lanciare l’allarme in riferimento a quello attuale, accompagnati da adatte note musicali, gli attori imitano e quasi divengono delle marionette come se invisibili fili dessero movimento seppur senza trasmettere vita, come si potrebbe desumere da una sorta di fermo immagine. Altro dato di fatto che racconta più di molte parole è il lasciar cader un quinta da palcoscenico sul calpestio scenico; sembra, ma solo in un primissimo momento, quasi un incidente scenico e non una disposizione studiata accuratamente; un rumore infernale che lascia intravedere una figura strana che chiama alla guerra; è un inizio oscuro, è la fine di un epoca storica quella che andava sotto il nome di Belle Époque”.