ha scoperto l’importanza di una proteina nel processo di formazione del muscolo scheletrico. Lo studio, realizzato da scienziati dell’Istituto di chimica biomolecolare del Cnr di Pozzuoli, è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
Si tratta di una scoperta in grado di fornire nuovi indizi utili per la messa a punto di trattamenti farmacologici che possano fermare la distrofia muscolare e altre temibili patologie degenerative.
Il dott. Vincenzo Di Marzo e gli scienziati da lui coordinati hanno per la prima volta caratterizzato il ruolo di una proteina nel differenziamento delle cellule muscolari scheletriche.
«La ricerca ha identificato il ruolo del recettore dei cannabinoidi di tipo 1 (CB1) nel processo di differenziamento delle cellule muscolari scheletriche umane e animali. Poiché alcune patologie muscolari sono determinate dalla progressiva degenerazione o dallalterazione del processo di rigenerazione dei tessuti, la possibilità di controllare farmacologicamente o geneticamente la funzione del recettore CB1 apre la strada a nuove strategie terapeutiche per il trattamento di patologie che incidono sulla rigenerazione e sullo sviluppo delle cellule muscolari, per le quali purtroppo non sono attualmente disponibili trattamenti farmacologici mirati. Basti pensare allimplicazione di tale opportunità nel rallentamento del decorso delle distrofie muscolari», spiega il dott. Di Marzo.
I ricercatori hanno anche scoperto che «diversi attivatori di tale recettore, sia endogeni, cioè prodotti dallorganismo, che sintetizzati in laboratorio, inibiscono lespansione e il differenziamento dei mioblasti, le cellule precursori del muscolo scheletrico, in miotubi, i componenti elementari delle fibre muscolari. Al contrario, alcuni bloccanti del recettore CB1, esercitano leffetto opposto, cioè stimolano tale differenziamento. Leffetto del CB1 è esercitato attraverso linibizione della funzione di altre proteine chiave per lo sviluppo muscolare, note come canali del potassio», precisa Di Marzo.
Alla realizzazione dello studio hanno partecipato anche gli scienziati dell’Università del Molise, del Karolinska Institutet di Stoccolma e dell’Università di Debrecen in Ungheria.
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